L’interesse suscitato dal libro intervista, ci ha portati a chiedere agli autori, don Michele Cipriani e Renato Brucoli, di riprodurre alcuni stralci a vantaggio dei nostri lettori

Il documento più antico è del 1175, ma l’icona è stata rinvenuta prima: forse, come sostiene il Marinelli Giovine, già nel 1038. Dipinta su una tavoletta di ciliegio del peso di 1980 grammi, a distanza nove secoli e mezzo stava andando in briciole. Ecco descritte le fasi del restauro che hanno riportato in primo piano la “mirabile pittura”.

La centralità dell’icona e il suo restauro

È storicamente documentabile l’origine dell’Icona? Quali le fonti?

Il legame fra la Madonna di Sovereto e la comunità è chiaramente documentabile, sia archivisticamente sia artisticamente, sia attraverso il culto.

Procediamo, allora, per tappe: l’Archivio capitolare è ricchissimo di pergamene e di materiale cartaceo: c’è traccia documentaria?

Una pergamena dell’Archivio capitolare testimonia che Elia, nel suo testamento, dispone «duodecim ducales ecclesiae sancte Marie de Suberito», come riferito dal Carabellese nel Codice diplomatico barese, III, 142. È il mese di marzo del 1175. Senza dubbio è già stata rinvenuta l’Icona della Madonna di Sovereto e il culto è già in atto, tanto che Elia si sente in dovere di lasciare 12 ducati per gratitudine e per incrementare il culto.
Il ritrovamento dell’Icona, dunque, è certamente anteriore al 1175.

Di quanto?

È un problema ancora aperto. Di certo sappiamo che altri lasciti per «Santa Maria de Suberito» sono documentati da pergamene del 1180, 1199, 1222, 1223… Il Marinelli Giovine riferisce, poi, che «il dipinto fu rinvenuto nell’epoca da noi stabilita, cioè dopo gli anni 1038 e 1074 (Memorie storiche di Terlizzi, 121). I documenti non sono riportati dal Marinelli Giovine, ma la realtà è attendibile perché nessuno regala la notevole somma di 12 ducati senza un minimo di garanzia e stabilità, e queste si costituiscono con il tempo.

Non solo le carte ma anche le pietre credo documentino materialmente il culto.

Proprio così, ed ecco la prova artistica: l’abside esterna della chiesa di Sovereto è una conferma al documento archivistico. È certo che presso il luogo del ritrovamento dell’Icona ben presto si stabiliscono i Cavalieri ospedalieri di San Giovanni, per accogliere e difendere i pellegrini e i crociati che transitano lungo la vicina via Appia- Traiana per i luoghi santi, e le monache del monastero di San Marco, soppresso nel 1725 dal Visitatore apostolico Antonio Pacecco, che attendono alla preghiera; di ciò abbiamo documenti del 1219 e 1282.
Nel 1600 viene allungato l’antico tempio di splendida fattura, ad opera di Nicolangelo e Nicola Colamia, con il contributo loro e dei benefattori, e nel 1603 il commendatario barese Nicola Maria Tresca vi fa erigere una torre «in modu arcis».
Nel 1640, Ludovico Paglia, nelle sue Istorie della città di Giovinazzo scrive che «Terlizzi ha fra le altre una chiesa col titolo di S. Maria di Sovereto o di S. Marco (…) in
cui vi è una miracolosa immagine della Beata Vergine, di mirabile pittura, miracolosamente ritrovata in una grotta col lume acceso, scoperta per opera di una pecora che affondò col piede, e mostrò il lume». Quindi, nel secolo XVII il quadro era ancora a Sovereto, ed era una «mirabile pittura», opera non di livello popolare. Ma il Seicento è secolo di guerre, pestilenze, siccità e calamità naturali, di scorrerie e di brigantaggio; a ciò si aggiunga la lunga lite giurisdizionale tra Giovinazzo e Terlizzi, che
coinvolge pesantemente il clero e il popolo, e si capirà l’affievolimento del culto alla Madonna di Sovereto.

Cosa accade, invece, nel Settecento, che è il secolo d’oro della città di Terlizzi?

Nel Settecento il canonico Francesco Bonaduce rianima il culto della Madonna di Sovereto: stabilisce un programma di feste popolari, fa sostituire il vecchio tempietto in legno dorato che custodisce l’Icona, con uno d’argento, disegnato e fuso a Napoli e inaugurato nel 1721. Erige nello stesso anno, il 15 settembre, una Confraternita in onore della Madonna di Sovereto, con decreto di fondazione sottoscritto dal Vicario capitolare Pietro Antonio Schettini. La prima sede è nel vecchio duomo, nella cappella intitolata alla Madonna di Sovereto, posta nella navata laterale destra. Ora nel transetto destro c’è il grande quadro dell’Invenzione della Madonna di Sovereto del concittadino Michele De Napoli e qui viene esposta la Madonna il 16 aprile alle ore 14.
Nel 1838 la Confraternita edificò l’Oratorio sotto il titolo di Madonna di Sovereto su suolo donato dal benestante e devoto Gennaro Antonelli De Paù. Nella parte destra dell’aula è stato eretto un altare con l’effige della Madonna di Sovereto.
È dunque strano che proprio nel 1700, che ha segnato il rifiorire del culto della Madonna di Sovereto, la tavola che la effigia abbia subito i peggiori affronti. Poiché il quadro ligneo della Vergine non entrava nel tempietto d’argento, fu segato a misura in alto, e nel retro chiuso con robusta porta di legno a doppia serratura. E si sa che anche il legno delle icone, sia pure miracolose, non sfugge alla terribile malattia del tarlo.
Ecco che il canonico Gioacchino De Paù apporta lo scempio più grave, non limitandosi a bloccare il tarlo ma adattando l’immagine ai gusti del suo tempo. Marinelli Giovine parla di restauro fatto dalla mano perita di de Paù nel 1719, ma a giudicare dai risultati, diremmo che fece di una «mirabile pittura» – come scrive il Paglia – un’ordinarissima Madonna tutt’altro che mirabile.

Qual era lo stato di conservazione dell’Icona nell’esercizio del tuo ministero pastorale?

Le condizioni generali del quadro erano gravissime, tanto che il prof. Michele D’Elia, Soprintendente alle Gallerie e Monumenti di Puglia, un’autorità in fatto di restauro, assicurava non più di 15 anni di vita al quadro, significando che in breve tempo si sarebbe sfaldato in polvere e pezzetti insignificanti di legno. Questo parere è documentato da una fotografia a grandezza naturale.
Il dovere di trasmettere alle future generazioni l’Icona della Madonna di Sovereto, mi ha spinto a interessarmi del restauro, ma le radiografie ai raggi X, preliminari a qualsiasi operazione di restauro, rivelarono, sotto l’immagine visibile della Madonna di Sovereto, la «mirabile pittura» descritta dal Paglia, il volto splendido e devoto trovato dai nostri padri nel X-XI secolo.

Quali ipotesi si prospettarono per salvare l’Icona?

Si poneva l’alternativa: lasciare le cose come stavano, per perdere l’icona nel giro di 15 anni, ipotesi accompagnata dal rifiuto della Soprintendenza a restaurare la dipintura superficiale in quanto di scarso valore e soprattutto non corrispondente all’originale, oppure riportare all’antico splendore il volto della Vergine, che dalla radiografia appariva «mirabile», capace di ispirare fiducia e devozione, e soprattutto venerata per almeno sei secoli dai nostri padri.

In quali tempi si è sviluppata la pratica di restauro?

La mia domanda, indirizzata al Ministero della Pubblica Istruzione presso la Divisione Generale Antichità e Belle Arti, è del 23 ottobre 1971. Pochi mesi dopo, il 3 maggio 1972, la pratica è stata istruita dalla Soprintendenza ai Monumenti e Gallerie della Puglia, e il 31 dello stesso mese è stato configurato il finanziamento di 130.000 lire, iscritto però nel bilancio ministeriale per l’esercizio finanziario 1973.
Questa somma, non del tutto sufficiente per sostenere la totalità dei lavori necessari, è stata integrata dalle offerte dei fedeli, ammontanti a 366.000 lire, per un totale complessivo di circa mezzo milione di lire.

Quando è avvenuto concretamente il restauro, e a opera di chi?

Tra la fine di marzo e la metà di aprile 1974. L’Icona è stata restaurata in Cattedrale dal prof. Cesare Giulio Franco, della Soprintendenza di Bari. L’imprimitura, venuta alla luce durante il restauro, ha rivelato una tecnica iconica adoperata nei secoli XI-XII. Quella è dunque l’epoca in cui i nostri padri hanno cominciato a venerare l’immagine sacra della Madonna di Sovereto.

Quali sostanze e strumenti sono stati adoperati per il restauro?

Lo xilolo, il dimetil e la butilammina come solventi, la lampada di Wood per individuare la stratificazione pittorica in fluorescenza, il termocauterio per “stirare” le superfici, le tempere Lefranc & Bourgeois per le integrazioni pittoriche, il Paraloid B 72 per il fissaggio della superficie iconica e il metacrilato per il retro della tavola. Facevano parte, al momento, della tecnica più avanzata.

Su quale materiale è dipinta l’Icona? Quanto pesa?

L’icona è dipinta su una tavoletta di ciliegio del peso di 1.980 grammi, a suo tempo consolidata con un impasto di gesso, di colla animale e di terra rossa e bruna.

Come sono andati avanti i lavori?

La responsabilità derivante dal mio ruolo, mi ha portato a redigere un dettagliato “giornale del restauro”, quand’anche non richiesto. Sono dunque in grado, oggi, di ricostruire giorno per giorno l’andamento dei lavori.
L’opera di restauro è cominciata alle ore 16.00 del 27 marzo 1974, con la rimozione dell’icona dalla sua sede naturale e con la rimozione degli ori che l’adornavano.
Si è provveduto, quindi, a rimuovere anche uno spesso strato di colofonia, resina vegetale applicata abbondantemente sul retro della tavola e sul suo perimetro. È stata seguita, quindi, la ricognizione dell’intera tavoletta lignea e sono stati effettuati piccoli saggi sulla superficie utilizzando solventi come lo xilolo e il dimetil, necessari per la pulitura. Poi è stata fissata la pellicola pittorica con Paraloid B 72, una resina consolidante che fa assumere alla superficie trattata l’aspetto lucido, quasi caramellato.
Il giorno successivo è iniziata la pulitura della superficie di fondo e sono venute in luce le aureole (in giallo, con bordi rossi) del Bambino e della Madonna. Sono anche apparsi dei residui di scritte in bianco nella parte destra della tavoletta, in alto e in basso, ma assolutamente illeggibili.
Da un saggio sulla testa della Madonna è emerso il manto di colore rosso con filettature chiare. Manto rosso e non blu, dunque. Fondo di un azzurro cupo, bordato di rosso, a delimitazione della zona cromatica. Tutte le operazioni sono state effettuate con l’utilizzo dello xilolo, del dimetil e della butilammina, in presenza di ridipinture a tempera.
Si è passati, quindi, all’utilizzo della lampada di Wood che con la sua luce fluorescente permette di scorgere i vari stadi di ridipintura, e sono state eseguite fotografie sia a luce radiante sia a ultravioletti filtranti.
Il 29 marzo è stata completata la pulitura del fondo. Si è provveduto a colmare le fessure e i vuoti rinvenuti sulla superficie con cera vergine a caldo, poi a fissare il colore con colla di coniglio diluita con acqua, e ad effettuare micro stirature della superficie pittorica con l’ausilio del termocauterio. Si tratta di uno strumento che, grazie all’interposizione di carta siliconata, permette di spianare gli increspamenti superficiali e i distaccamenti della materia pittorica dalla superficie lignea. Il tutto è stato nuovamente protetto con un leggero strato di Paraloid B 72 al 5%.
Il 1° aprile è cominciato il ritocco delle lacune e delle abrasioni sulla superficie pittorica con la tecnica divisionistica. Le integrazioni sono state effettuate con tempere Lefranc & Bourgeois, appositamente provenienti dalla ditta francese all’avanguardia, fin dall’Ottocento, sia nella gamma dei colori sia nella preparazione di vernici pittoriche ricche dei giusti pigmenti e astringenti cromatici.
Le operazioni sono andate avanti fino al 3 aprile. Ogni sessione di lavoro si concludeva con la fotografia della tavola: in bianco e nero a luce diretta, e a colori con luce diffusa e uso del filtro polarizzatore, che impedisce il passaggio della luce riflessa. Infine il retro della tavola è stato consolidato con iniezioni e spennellature di metacrilato, che procura un effetto vetrificante.
Il 4 aprile 1974, alle ore 17.00, l’Icona restaurata è stata esposta nell’area presbiterale dell’altare maggiore della Cattedrale ed è cominciato il pellegrinaggio delle comunità parrocchiali S. Gioacchino e Immacolata, proseguito il giorno successivo con le comunità S. Maria della Stella e SS. Medici.

di Renato Brucoli

da “La Nuova Città”  – Luglio/Agosto 2013

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